IL CORPO CHE LAVORA[1]

Michele Prospero

Ha ancora un senso per la sinistra europea il richiamo al lavoro? L'ineffabile Gordon Brown si è spinto fino a definire il suo Labour «il partito moderno dell'imprenditorialità, della flessibilità e del business». Se per i laburisti la politica è solo la scaltra prosecuzione del business, è evidente che nomi e tradizioni del Novecento sono completamente saltati. A fine anni quaranta, un sociologo come T. H. Marshall descriveva il meccanismo economico inglese come «un sistema francamente socialista» nel quale «il mercato funziona ancora, ma entro certi limiti». Da un ventennio, la rivincita del mercato è stata devastante e ormai si va verso una grande omologazione delle pratiche politiche asservite alla cultura d'impresa e al linguaggio manageriale. Esistono codici condivisi che supportano le insidiose strategie dell'impresa di affrancarsi dal costo dei diritti rendendo il lavoro sempre più flessibile. All'opacità teorica del corpo che lavora, riscontrabile in tante delle rappresentazioni postmoderne, segue anche la scomposizione pratica del corpo nel lavoro attuata con politiche del diritto orientate alla flessibilità e alla frantumazione.

Nell'ultimo decennio, le figure contrattuali emergenti sono state quelle del part-time, del contratto a tempo determinato o definito, delle prestazioni occasionali. Sulla base di una nient'affatto innocente finzione giuridica, che esprime però il senso dei nuovi rapporti di forza, il lavoratore flessibile, che svolge mansioni molto subalterne nel rapporto di collaborazione, diventa improvvisamente un lavoratore autonomo padrone dei propri tempi di vita. Il nuovo assunto, destinato ad un incerto lavoro temporaneo, perde così ogni garanzia prevista per il lavoro dipendente dal tradizionale diritto del lavoro che aveva ottenuto forme di «socializzazione» del diritto privato. Il precario ricopre compiti del tutto subordinati, ma questo rapporto reale di sottomissione il diritto lo ignora, perché preferisce equipararlo al prestatore d'opera intellettuale. Le nuove norme cancellano, con un ben riuscito colpo di prestigio, l'elemento qualificante del rapporto di lavoro, cioè la subordinazione alle direttive del possessore di capitale. Grazie a questo miracolo del diritto, capitale e lavoro non si oppongono più, e persone che di fatto sono dipendenti e per di più senza protezioni e coperture, sono equiparate ai prestatori occasionali d'opera che vendono il loro ingegno in condizioni di autonomia creativa. Con un audace colpo di bacchetta magica, viene così elusa la disposizione del codice civile che descrive il lavoro prestato «alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore» e il precario diventa d'incanto un autonomo prestatore d'opera, più vicino alla condizione del capitale che a quella del lavoro. Per il diritto, e solo per il diritto, il prestatore d'opera flessibile diventa un dinamico imprenditore di se stesso. Nella realtà, egli non partecipa davvero al governo del rischio e quindi alla ripartizione del profitto. Continua per lui invece solo la consueta libertà di partecipare al rischio di perdere l'occupazione, a conferma di una condizione di sostanziale sottomissione.

Il lavoro, nelle sue forme antiche e recenti, resta come sempre estraneo al rischio, all'iniziativa, all'organizzazione tecnica dell'impresa ma non gode più le piccole garanzie previste per il rapporto subordinato. Aumenta quindi la sussunzione del lavoro al capitale e con essa il potere dell'impresa che decide i modi e i tempi delle prestazioni, ma per il diritto non esiste alcun problema di disparità reale tra i soggetti del ciclo economico. Il contratto a tempo determinato attenua la portata della contrattazione collettiva che nacque come risposta alla disparità evidente di potere sociale tra l'individuo che vende la forza lavoro e il soggetto proprietario del capitale che la compera appropriandosi dei risultati. Nel contratto d'opera senza vincolo di subordinazione si torna a fingere che ogni contratto copra una situazione assolutamente unica che richiede per ciascun soggetto uno schema contrattuale irripetibile.

Il lavoro dipendente nel diritto postmoderno viene di colpo ricondotto entro la scarna e ingannevole figura della locazione d'opera prevista dall'antico diritto romano e recepita da Kant. La ripulsa dei contratti collettivi e della funzione pubblica restituisce ai lavoratori singoli la straordinaria libertà di stipulare negozi ossia di essere diversamente remunerati per la medesima operazione compiuta per lo stesso arco di tempo. Dinanzi alla riscoperta della libertà illimitata di stipulare negozi uti singuli, si chiudono gli occhi sulla condizione di incertezza e precarietà. Tutti si inginocchiano dinanzi alla inopinata epifania dell'astratto soggetto giuridico la cui libera autonomia della volontà ha forza di legge tra le parti. La residuale logica del concreto, fatta valere da potenze sociali collettive o da agenzie pubbliche, si piega dinanzi alla costruzione di schemi giuridici astratti che esaltando la funzione autonormativa del contratto sanzionano di fatto solo il trionfo del potere sociale più forte.

Nel diritto postmoderno tutti sono lavoratori autonomi, il manager come l'addetto alle pulizie, e pochi sono i dipendenti (i mediatori finanziari o i calciatori), e l'impresa non tollera ingerenze politiche dopo la libera stipulazione tra le parti. Il postmoderno, anche con le leggi sul lavoro temporaneo e interinale, sta costruendo un diritto usa e getta che con gli schemi normativi ricalcati sulle pratiche dell'economico aderisce a tutte le esigenze di accumulazione dell'impresa. L'azienda ha a disposizione un diritto completamente piegabile rispetto alle convenienze dei soggetti economici.

Quando declina il potere collettivo del lavoro dinanzi all'impresa che impone il gran ritorno del contratto individuale, svanisce anche la tutela dell'interesse pubblico. Il mercato pretende di essere il regolatore unico della vita associata imponendo una autodeterminazione degli interessi che non tollera la sfera della cittadinanza e del governo pubblico dello sviluppo. Con il primato del contratto, l'impresa reclama solo un pronto rafforzamento degli istituti internazionali per l'unificazione del diritto privato chiamato a imporre modelli contrattuali più uniformi negli immensi spazi globali. Con uno strumento di regolazione adattabile come il contratto, l'impresa si assicura una fonte per l'innovazione giuridica permanente in un mercato concorrenziale. L'esaltazione della forza produttiva del libero contratto, che ha gli schemi pronti per coprire la sinuosità del reale, postula il raggiungimento di una pretesa società coesa entro il privato, unico legislatore autorizzato a creare norme vincolanti tra le parti.

Questa realtà incantata che esalta i calcoli egocentrici dei privati può essere scossa solo dalla riconquista di spazio politico da parte del corpo che lavora. Ha scritto Marta Nussbaum: «il corpo che fatica è lo stesso ovunque, con lo stesso bisogno di cibo e di cure, quindi non sorprende che la lavoratrice di Trivandrum sia paragonabile alla lavoratrice dell'Alabama o di Chicago». E' possibile cominciare ad opporre al dialetto degli schemi del contratto disegnati dall'impresa un linguaggio dei diritti del corpo che lavora?

NOTE


[1] Estratto da: “il manifesto”, 26 marzo 2005