L'INDUSTRIA E IL CASINÒ[1]

GIORGIO LUNGHINI

Il primo problema oggi non è la banca, è l'industria, un'industria che non è capace di produrre un sovrappiù sufficiente: latte e pelati, vestiti e scarpe. Nessuno di noi ha in casa computer, televisori, cellulari, orologi concepiti in Italia. Imprese private che non temono più la concorrenza dell'impresa pubblica e che al rischio d'impresa preferiscono la gestione di servizi pubblici e l'incasso di tariffe. Imprenditori per i quali i salari sono soltanto costi, e che invocano la libera concorrenza tanto quanto la paventano. La rendita, non il profitto, domina l'economia italiana. Qui sì che le banche contano, nei loro rapporti con l'industria. Anche gli interessi bancari hanno natura di rendita, di tassa sui profitti lordi delle imprese. L'aveva scritto l'Economist, il 22 gennaio 1853: «Il tasso dell'interesse dipende 1) dal saggio dei profitti; 2) dalle proporzioni in cui il profitto lordo viene diviso tra banche e imprese». Ne aveva preso nota Marx: «Poiché l'interesse è solo una parte del profitto, pagata dal capitalista industriale al capitalista finanziario, il limite massimo dell'interesse è il profitto stesso, nel qual caso la porzione intascata dal capitalista produttivo sarebbe uguale a zero». Il problema è come i capitalisti industriali e i banchieri si spartiscano i profitti lordi, tra profitti netti e rendita finanziaria. È un problema politico, di rapporti di forza. Poiché gli interessi bancari sono una quota dei profitti lordi delle imprese, se i profitti industriali crescono la spartizione è relativamente pacifica, altrimenti è conflittuale o prende la forma della collusione. Questo è il caso in cui le industrie contraggono debiti non per fare investimenti, ma per pagare i debiti precedenti. La finanza ha ora una dimensione mostruosa, e da gioco a somma zero rischia di diventare un gioco in cui perdono tutti. È allora che il sistema economico diventa un casinò, e le banche croupier.

NOTE


[1] Estratto da “il manifesto” 3 marzo 2004.