NEL NOME DI CAFFE'

IL FILOSOFO E IL FACCHINO[1]

GIORGIO LUNGHINI

La riforma della scuola decretata nei giorni scorsi mi ha fatto venire in mente una pagina dell'Abbozzo della Ricchezza delle nazioni (probabilmente del 1763; la prima edizione italiana si deve a Valentino Parlato). Scrive Adam Smith: in realtà la differenza del talento naturale tra i diversi uomini è molto minore di quanto noi riteniamo, e il diverso ingegno che sembra distinguere uomini di diversa professione, quando costoro siano pervenuti a maturità, forse non è la causa, ma l'effetto della divisione del lavoro. Che cosa può esservi di più diverso di un filosofo e un facchino? Tuttavia tale differenza sembra nascere non tanto dalla natura, quanto dai costumi e dalla educazione. Quando vengono al mondo, e per i primi cinque o sei anni della loro esistenza, filosofi e facchini sono molto simili, e né i loro genitori, né i loro compagni di gioco possono scorgere differenze notevoli.

A quella età, o poco dopo, i bimbi sono avviati a differenti occupazioni. Cominciamo allora a notare delle differenze in ciò che chiamiamo ingegno, e la differenza si accresce fino a quando la vanità del filosofo rifiuta qualsiasi somiglianza.

Senza l'inclinazione a trafficare, barattare, scambiare - seguita Smith - ciascun uomo dovrebbe procurare a se stesso tutte le cose necessarie della vita; ciascun uomo dovrebbe impegnare tutto se stesso in ogni cosa.

Tutti dovrebbero fare lo stesso lavoro e adempiere agli stessi compiti, e non vi sarebbe quella diversità di occupazione che è la sola causa della diversità dei caratteri. È per questo motivo che presso i selvaggi si nota una uniformità nei caratteri, maggiore che non presso le popolazioni civili. Tra i primi vi è una divisione del lavoro limitata e dunque non vi è alcuna differenza importante nelle occupazioni; mentre tra i civilizzati vi è una quasi infinita diversità di occupazioni, con mansioni che determinano grandi differenze tra l'uno e l'altro.

Vi sono molte razze di animali, tutte della stessa specie, nelle quali la natura ha impresso una diversità di intelligenza e di inclinazioni molto più accentuata di quella che si trova tra gli uomini, prima che sugli umani agiscano il costume e l'educazione. Per ingegno e tendenza, in natura un filosofo non è diverso da un facchino, neanche la metà di quanto lo sia un mastino da un levriero.

Tuttavia queste differenti razze di animali, benché appartenenti alla stessa specie, non sono di nessuna utilità le une alle altre. Un animale è obbligato a provvedere a se stesso e a difendersi da solo, e non ricava alcun vantaggio dalle diverse capacità di cui la natura ha dotato i suoi simili. Tra gli uomini, invece, i diversi ingegni sono utili gli uni agli altri, poiché i diversi prodotti delle loro diverse inclinazioni, a causa della generale disposizione a barattare, trafficare e scambiare, costituiscono un fondo comune.

Un facchino è utile a un filosofo non soltanto perché qualche volta gli porta un peso, ma perché gli rende più agevole ogni commercio. Il filosofo, d'altra parte, è utile al facchino, non soltanto perché talvolta ne è un cliente, ma per molti altri aspetti. Se le speculazioni del filosofo si sono dirette al progresso delle arti meccaniche, il beneficio di esse può diffondersi al più umile degli uomini.

Secondo Adam Smith, la divisione del lavoro può dunque giovare a un maggior benessere dell'intera specie umana. Tuttavia la divisione del lavoro, proprio nell'età scolare, farà sì che un bimbo diventi facchino, un altro filosofo, anche se il loro talento naturale è uguale. Poche pagine prima il vecchio Adamo - un «fatalista classico», secondo Marx - così scriveva: In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e al lusso enorme dei loro signori. La rendita che sostiene lo sfarzo del padrone indolente è stata tutta guadagnata dalla laboriosità del contadino. Chi possiede denaro, indulge a ignobile e sordido libertinaggio a spese del mercante e dell'artigiano, ai quali presta a interesse il suo capitale.

Allo stesso modo, le frivole e indolenti persone addette alla Corte sono nutrite, vestite e alloggiate da coloro che pagano le tasse per mantenerle. Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto della propria attività. Non ci sono tra loro né padroni, ne usurai, né esattori di tasse.

NOTE


[1] Estratto da “il manifesto” del 28 maggio 2004.