NEL NOME DI CAFFE'

GIOVANNI AGNELLI IL «RIFORMISTA»[1]

GIORGIO LUNGHINI

Anche in Italia c'è stato un grande ideologo del marxismo, meno importante del Ford di Kojève e piuttosto nella linea del genero odiosamato di Marx, il Lafargue del Diritto all'ozio, e del Keynes delle Prospettive economiche per i nostri nipoti. Si tratta del senatore Giovanni Agnelli, che per ragioni più aritmetiche di quelle di Lafargue e di Keynes aveva rilasciato una intervista alla United Press, sostenendo con grande scandalo l'opportunità di una riduzione generale delle ore di lavoro. La tesi fu poi disputata con Luigi Einaudi sul numero del gennaio-febbraio 1933 della «Riforma sociale». Si supponga, scriveva Agnelli, che in un dato momento ci siano 100 milioni di operai occupati a un dollaro al giorno. Ogni giorno ci sarà una domanda di beni e servizi per 100 milioni di dollari, e un'offerta di pari ammontare. Non esistono disoccupati e «gli affari vanno». Interviene una innovazione che consente di risparmiare lavoro e di realizzare un maggior guadagno. Quando le nuove tecniche di produzione si siano generalizzate, risulterà che per produrre la stessa massa di beni e servizi bastano 75 milioni di lavoratori, gli altri 25 milioni saranno disoccupati. Quale la causa? Si risponde Agnelli, con notevole intelligenza: «L'incapacità dell'ordinamento del lavoro a trasformarsi con velocità uguale alla velocità di trasformazione dell'ordinamento tecnico». I disoccupati potranno consumare assai meno di prima; la domanda si ridurrà al disotto del livello precedente, dunque diminuirà la produzione e con essa l'occupazione. Dopo un po' basteranno 70 e poi 60 milioni di operai a produrre quanto il mercato richiede: «È una catena paurosa che a noi pratici pare svolgersi senza fine, sebbene voialtri economisti ci abbiate abituati a credere che a un certo punto si deve ristabilire l'equilibrio». Come uscirne?

Seguita Agnelli: rendiamo uguali le velocità dei due movimenti progressivi, quello tecnico e quello, chiamiamolo così, umano. Poiché, a produrre una massa invariata di beni e servizi, occorrono 600 invece che 800 milioni di ore di lavoro, tutti i 100 milioni di operai occupati nel primo momento per 8 ore al giorno, rimarranno occupati nel secondo momento per sei ore al giorno. Poiché essi producono la stessa massa di beni di prima, il salario rimarrà invariato in un dollaro al giorno. La domanda operaia di beni e servizi resta di 100 milioni di dollari. Nulla è mutato nel meccanismo economico, il quale fila come olio colato. Non c'è disoccupazione, non c'è crisi. Il senatore Agnelli finge ora un dubbio: forse che per essermi voluto tenere al semplice, al pratico, ho trascurato qualcuno di quei fattori invisibili, di cui soprattutto parmi si dilettino gli economisti? Ha il mio dubbio un fondamento?

No, risponde e poi predica il senatore Einaudi, il dubbio non ha fondamento per quanto tocca la meta ultima alla quale si deve mirare; il dissenso sta nei tempi brevi e negli attriti secondari: la disoccupazione tecnica è una malattia, della quale non occorre che i medici si preoccupino gran fatto, ché essa si cura da sé. Gravi sono invece le altre specie di disoccupazione; gravi poiché nate dalla follia umana. Contro di esse non giova il rimedio della riduzione delle ore di lavoro; ché il rimedio tecnico non è adatto a guarire le malattie mentali: «Noialtri industriali e economisti dobbiamo farci da un lato e lasciare il passo ai veri competenti, ai sacerdoti di Dio, ai banditori di idee ed ai reggitori dei popoli».

Anche su questa disputa avrà qualcosa da dire Antonio Gramsci: il limite vero del ragionamento di Agnelli e di Einaudi sta nella supposizione che vi siano soltanto due classi, 'lavoratori' e “industriali”, mentre vi sono anche i `parassiti', gli “azionisti vaganti”, gli speculatori, cioè gente che consuma senza produrre: «Se il progresso tecnico permette un più ampio margine di profitto, questo non sarà distribuito razionalmente ma “sempre” irrazionalmente agli azionisti e affini».

NOTE


[1] Tratto da “il manifesto” del 21 maggio 2004.