DEFICIT USA E STATO SOCIALE EUROPEO

STEFANO LUCARELLI

Il deficit commerciale Usa ha toccato in undici mesi la cifra record di 446,8 miliardi  di dollari (contro i 418 miliardi dello scorso anno): i repubblicani che dovrebbero predicare la rettitudine fiscale e il pareggio del bilancio pubblico, avrebbero mutato prospettiva poiché giustificano la crescita del deficit federale per sostenere gli investimenti. Si tratterebbe quindi di un ritorno a Keynes da destra, che l’opposizione democratica avversa, con le stesse motivazioni con cui i democratici nostrani cercano di proteggere l’Unione Europea: il boom del deficit spingerà verso l’alto i tassi di interesse spiazzando i risparmiatori realizzando così una ripresa che andrà a discapito delle generazioni future; bisogna invece incoraggiare gli investimenti, vincolandosi alla regola del pareggio del bilancio che basterebbe a contenere il livello dei tassi di interesse.

Il Keynes dei repubblicani è una truffa: i conti migliori realizzati dagli uomini d’affari americani sono più il frutto di tagli feroci nei costi del lavoro, che di esplosione dei fatturati. Non si tratta di un ritorno a Keynes, ma di una ricetta che ha come primo obiettivo la riduzione fiscale, e quindi una redistribuzione delle risorse dai poveri ai ricchi. In questa prospettiva il deficit crescente non si accompagna ad una spesa pubblica a vantaggio di uno stato sociale. L’occupazione che viene  così a crearsi è una cattiva occupazione; i lavoratori diventano un fattore della produzione perfettamente sostituibile in qualsiasi momento, e fuori dal posto di lavoro diventano cittadini costretti a comprare i propri diritti. Cambia così il significato di pieno impiego (e per questo dovrebbero cambiare gli strumenti di misura e di valutazione della disoccupazione!).

Il Keynes dei democratici (americani e nostrani) si riduce al ragionamento sui tassi di interesse. La General Theory inizia proprio criticando la teoria classica del tasso di interesse : “Si è trovata finora la giustificazione ad un saggio di interesse moderatamente alto nella necessità di offrire un incentivo sufficiente al risparmio. Ma si è mostrato che l’ampiezza del risparmio effettivo è necessariamente determinata dall’entità dell’investimento e l’entità dell’investimento è favorita da un saggio di interesse basso, purché non si cerchi di stimolarlo in tale direzione al di là del punto corrispondente alla piena occupazione.”  La discesa dei tassi di interesse insieme alla riduzione del deficit pubblico metterebbe a disposizione delle imprese le risorse dei risparmiatori, favorendo la crescita economica.

La lezione di Keynes è molto diversa: “nel pensiero keynesiano – ha scritto Federico Caffè  -non vi è soltanto un apparato di analisi, un insieme di suggerimenti per la politica economica (adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al delinearsi della seconda guerra mondiale), ma una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale”. Le teorie antiche e recenti che affidano il riequilibrio agli automatismi di mercato si pongono in posizione alternativa. La teoria keynesiana dei tassi di interesse non basta da sola a curare i difetti più evidenti della società in cui viviamo – l’incapicità di provvedere a un’occupazione piena e la distribuzione iniqua delle ricchezze e dei redditi. Per questo occorre una teoria economica del deficit che non sia un luogo comune: la convergenza fra sviluppo economico e Stato Sociale dovrebbe essere al centro della riflessione politica per proporsi come alternativa credibile alla sofistica arrogante dei guerrafondai. In tal senso è più importante riflettere sulla relazione tra disavanzi di bilancio e aspetti qualitativi dello sviluppo (innanzitutto, parafrasando Adam Smith, “l’arte, la destrezza e l’intelligenza con cui si esercita il lavoro e il rapporto tra gli individui occupati in un lavoro utile e quelli che non lo sono”), piuttosto che sulla relazione tra livelli dei tassi di interesse di mercato e disavanzi di bilancio.

Lo Stato Sociale potrebbe così uscire dal dominio dell’incubo dei contabili e ritornare al centro di una politica economica reale.