LA CINA È VICINA[1]

JOSEPH HALEVI

Concordo con Keynes che in economia non vi sono processi ineluttabili e quello che accade è piuttosto imprevedibile. Ragionerò quindi a lume di naso. Il governo americano non permetterà la creazione di una disoccupazione di massa nel proprio paese. Questo è il prodotto di una scelta sociale strategica nata negli anni ottanta, maturata durante la recessione che colpì l’economia statunitense agli inizio dello scorso decennio e sperimentata sotto la presidenza Clinton. Da Reagan in poi la «crescita» economica americana si è caratterizzata per un accentuato spostamento di redditi e di ricchezza verso gli strati più alti della popolazione mentre questo stesso fenomeno è stato accompagnato da un’espansione occupazionale con salari reali stagnanti e perfino decrescenti. Contrariamente alle classi dirigenti europee che hanno paura delle crescita per via di possibili aumenti nei salari reali, quelle americane vi trovano la loro forza sia sul piano interno che sul piano internazionale. Negli Usa fintanto che la gente lavora, si indebita e si affanna non vi sono seri problemi sociali, ad eccezione delle sacche no go ove si applicano criteri da conflitto a bassa intensità. Questa strategia rischiò di affondare con la recessione del 1991-2 e venne salvata dalla politica di Clinton fondata in gran parte sull’espansione dei mercati finanziari. Con lo scoppio della bolla speculativa nel 2000 riaffiorò lo spettro della disoccupazione di massa. Né il rilancio militar industriale subito intrapreso da Bush II, né la guerra in Afghanistan ebbero la forza di stimolare l’economia.

Le cose sono ripartite con il pacchetto keynesiano Iraq assieme ai bassissimi saggi di interesse praticati dalla Fed. Tuttavia gli effetti occupazionali sono ancora limitati, sebbene negli ultimi mesi vi sia stata un’inversione di tendenza. Pertanto nel prossimo anno il pacchetto verrà rafforzato. Anche i mercati finanziari Usa, i cui valori durante Clinton si innalzavano ogniqualvolta appariva una nuova eccedenza nei conti pubblici, reagiscono ormai positivamente agli effetti dei deficit di bilancio di Bush II ed è per questo che il Dow Jones aumenta malgrado il calo del dollaro. I mercati americani stanno incorporando positivamente, purché sia graduale, la svalutazione del biglietto verde, in quanto la interpretano come un colpo all’Europa dell’euro. L’eurozona ha una compattezza produttiva superiore agli Stati uniti che sono invece diventati un’economia globale di importazione. Un dollaro debole rallenta le esportazioni europee a favore di quelle asiatiche. La svalutazione del dollaro e l’indebolimento dell’eurozona hanno quindi una valenza geopolitica poichè accentuano l’accorpamento dell’economia mondiale sull’asse Usa-Cina-Giappone senza che l’Europa possa avere voce in capitolo.

L’altra faccia della strategia americana è costituita dal crescente deficit estero, soprattutto con l’Asia orientale, cui non sta più corrispondendo un adeguato afflusso di capitali per via, appunto, del calo del dollaro. Questo fatto rafforza la dimensione politica delle relazioni economiche internazionali ormai condizionate dal suddetto accorpamento geoeconomico. Oggi sono prevalentemente le banche centrali del Giappone e della Cina a coprire il deficit estero di Washington comprando dollari a man bassa proprio per evitare una rovinosa caduta della moneta americana le cui ripercussioni metterebbero in crisi le stesse eportazioni asiatiche e quindi l’intera economia sino-nippo-americana. Ma a questo punto i processi economici diventano puramente politici. Que sera sera ma senza l’Europa.

NOTE


[1] Estratto da “il manifesto” del 31 dicembre 2003.