NEL NOME DI CAFFE'

MARX E IL FISCO[1]

LUIGI CAVALLARO

Secondo autorevoli commentatori e non meno autorevoli economisti, la misura del prelievo fiscale rispetto al pil (la cosiddetta pressione fiscale) indica la misura in cui ciascuno di noi è costretto a lavorare per lo Stato invece che per se stesso e la sua famiglia. In una recente trasmissione televisiva, per esempio, l'«esperto» di turno spiegava che con l'attuale pressione fiscale è come se ciascuno di noi dovesse lavorare per lo Stato fino all'11 giugno (o giù di lì) di ogni anno e solo dal 12 in poi cominciare finalmente a godere dei frutti del suo lavoro, e aggiungeva che, grazie alla riforma promossa dal governo Berlusconi, avremmo lavorato per lo Stato un po' meno - fino al 27 o 28 maggio. L'idea sottesa a questa rappresentazione è che ciascuno sia «naturalmente» proprietario dei frutti del suo lavoro, un'idea della quale Marx, nella Critica al Programma di Gotha (1875), metteva a nudo l'origine borghese: «i borghesi hanno buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che l'uomo, il quale non ha altra proprietà all'infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso».

Marx ben conosceva Adam Smith, la cui Ricchezza delle nazioni (1776) esordisce con l'affermazione secondo cui «il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma». Ma, concesso che il «reddito del lavoro» non è altro che il prodotto sociale complessivo, non si sognava di dire che esso doveva andare integralmente ai lavoratori. In realtà, da questo reddito si deve detrarre: «Primo: la copertura per reintegrare i mezzi di produzione consumati. Secondo: una parte supplementare per l'estensione della produzione. Terzo: un fondo di riserva o di assicurazione contro infortuni, danni causati da avvenimenti naturali, ecc.».

Fatte queste detrazioni, proseguiva, «rimane l'altra parte del prodotto complessivo, destinata a servire come mezzo di consumo». Ma anche qui, prima di arrivare alla ripartizione individuale, bisogna detrarre: «Primo: le spese generali d'amministrazione che non sono pertinenti alla produzione. [...] Secondo: ciò che è destinato alla soddisfazione collettiva dei bisogni, come scuole, istituzioni sanitarie, ecc. [...] Terzo: un fondo per gli inabili al lavoro».

Marx precisava che questa seconda tipologia di spese (modernamente: le spese pubbliche per sanità, istruzione, previdenza e assistenza sociale) sarebbe aumentata «nella misura in cui la nuova società si verrà sviluppando», ma essendo un comunista c'era da aspettarselo. Quel che sfugge ai sostenitori della «forza creatrice soprannaturale» del lavoro è che quelle stesse «detrazioni» che lo Stato opera mediante il sistema fiscale (imposte, tasse e contributi), il mercato compie mediante il sistema dei prezzi.

In altri termini, anche se riducessimo le tasse e togliessimo (o tagliassimo) quel che resta del servizio sanitario nazionale, dell'istruzione e della previdenza e l'assistenza pubbliche, i bambini dovrebbero essere istruiti, i vecchi e gli inabili mantenuti e le spese generali d'amministrazione sostenute; pagheremmo un privato invece dello Stato - un prezzo per una merce invece che un'imposta per un diritto - ma pagheremmo ugualmente. E se è vero che gli Usa spendono in sanità quanto l'Europa ma solo la metà degli americani gode di una copertura sanitaria, c'è da scommettere che non lavoreremmo per noi stessi prima del 29 o 30 dicembre, e molti nemmeno comincerebbero.

NOTE


[1] Estratto da “il manifesto” del 2 luglio 2004.