NEL NOME DI CAFFE'

A LEZIONE DI ECONOMIA DA LENIN[1]

LUIGI CAVALLARO

Nell'ottobre 1921, Lenin tenne alcuni discorsi in cui spiegò il significato della svolta nella gestione dell'economia sovietica inaugurata nella primavera precedente, dopo gli anni del «comunismo di guerra». Lenin la chiamò «Nuova politica economica», donde l'acronimo NEP con cui è passata alla storia e da questa al dimenticatoio. Le sue parole si possono riassumere pressappoco così. Accentrando la produzione e la distribuzione nelle mani dello Stato, abbiamo commesso l'errore di voler passare direttamente alla produzione e distribuzione su basi comuniste, dimenticando che a ciò si arriva attraverso un lungo e complicato periodo di transizione. La nostra «Nuova politica economica» muove dal fatto che abbiamo subito una grave sconfitta e iniziato una ritirata strategica. Non abbiamo saputo mobilitare l'interesse individuale dei produttori nei confronti della cosa pubblica. Abbiamo ecceduto in discussioni collettive e dimenticato il principio della responsabilità individuale. In una parola, non abbiamo saputo lavorare per noi stessi.

Certo, era difficile farlo sulla base del livello culturale medio di cui disponiamo e proprio per ciò elevare la cultura è uno dei nostri compiti più immediati. Finché esisterà l'analfabetismo sarà difficile parlare di politica: l'analfabeta è fuori dalla politica - in una società di analfabeti ci possono essere chiacchiere, pettegolezzi, favole, pregiudizi, ma nessuna politica. Abbiamo poi coltivato la presunzione di pensare che tutti i problemi potessero risolversi con la coercizione politica, dimenticando che un momento altrettanto essenziale del potere è il consenso. E quando ce ne siamo ricordati è stato solo per dar vita alle corruttele, dimenticando stavolta che dove c'è corruzione nessuna politica è possibile. Quando l'attacco frontale non riesce, si tenta l'aggiramento, si ricorre all'assedio e alla trincea.

È comprensibile che oggi ci sia molta gente esasperata e altrettanta sgomenta, proprio come quando il nostro esercito retrocedeva, e speriamo che anche stavolta valga il vecchio proverbio: «Per un uomo ridotto in pezzi eccone due sani». Ma i compiti sul fronte economico sono più difficili che su quello militare. «Nuova politica economica» significa in misura notevole restaurazione del capitalismo, perché significa riconoscere ai produttori la possibilità di scambiare liberamente sul mercato tutto ciò che dei loro prodotti non è assorbito dalle imposte (e l'eccedenza è tanta, perché le imposte sono basse). La questione fondamentale, dal punto di vista strategico, è quella di capire chi saprà approfittare prima di questa nuova situazione, se chi si sforza di costruire una società socialista o chi invece replica: «Torniamo indietro, è più sicuro, altrimenti con questa trovata del socialismo, chissà dove va a finire!». In ciò si risolve il conflitto attuale: vinceranno i capitalisti, ai quali stiamo aprendo le porte prima chiuse della produzione pubblica, e cacceranno i comunisti, oppure il potere statuale, regolando moneta e produzione, riuscirà a tenere ferme le redini al collo dei signori capitalisti, creando un capitalismo subordinato allo Stato e posto al suo servizio?

Molto dipende da noi: se sapremo organizzare i produttori in modo da sviluppare le loro capacità e garantire a questo sviluppo il sostegno dello Stato, bene; altrimenti, i produttori verranno asserviti al capitale. Così scriveva Lenin in La Nuova politica economica e i compiti dei centri di educazione politica. Lette ottant'anni dopo, le sue parole mi sembrano una gigantesca metafora di qualcosa, ma è difficile dire esattamente di che cosa.

NOTE


[1] Estratto da “il manifesto” del 11 giugno 2004.