RITAGLI DI UTOPIA FEDELI ALLA LINEA[1]

I collage dei grandi artisti sovietici da Rodchenko a El Lissitskij

«Bisognava escogitare qualcosa di nuovo: le foto venivano ritagliate, incollate in modo provocante, collegate tra loro con disegni, pezzi di giornale o vecchie lettere o quel che capitava, pur di cacciare nelle fauci di un mondo impazzito la sua stessa immagine»: così nasce, a opera dei dadaisti il fotomontaggio.

Elena Del Drago

La storia del fotomontaggio è indissolubilmente legata a quella delle rivoluzioni comuniste. In particolare, nella Germania del primo dopoguerra, quando «i marinai rivoluzionari fecero sventolare lo stendardo del Soviet lungo tutto il paese e ... il comitato esecutivo di un soviet di operai e di soldati berlinesi nominò un governo socialista del paese», come scrive Eric Hobsbawm ne Il secolo breve, quando la rivoluzione sembrava imminente e invece era già finita, nasceva il fotomontaggio come l’eredità più notevole lasciata dal gruppo Dada di Berlino.

Il Club Dada di Berlino viene proclamato nel 1919: Huelsenbeck è il suo plenipotenziario, Hausmann, Baader, George Grosz e i due Herzfelde i componenti. Il programma del dadaismo, stampato su fogli da distribuire in giro, è assolutamente chiaro:

«Il dadaismo chiede:

1 l’unione internazionale di tutti gli uomini creativi e di ingegno elevato sul terreno del comunismo radicale;

2 l’introduzione della progressiva liberazione del lavoro attraverso la meccanizzazione estensiva di qualsiasi attività. Solamente attraverso la liberazione del lavoro l’individuo potrà conoscere il vero senso della vita ed esercitano a viverla;

3 l’espropriazione immediata della proprietà e l’alimentazione comunistica di tutti gli uomini, nonché la costruzione di giardini e di luce appartenenti alla collettività, che aiuti gli uomini a diventare liberi»

La guerra è appena finita, si ha l’impressione che tutto sia possibile e la lotta contro l’arte non è la questione rilevante, deriva piuttosto da quella contro la società, Tutti gli «ismi» vengono rifiutati soprattutto perché sono l’immagine della decadenza borghese, il surrogato di un’ideologia che non funziona. Ma, ancora una volta, il desiderio di proclamare e mettere in atto l’anti-arte non fu facile: come nel primo Dada zurighese, la sensazione di sradicamento e di libertà assoluta portarono, solo tra difficoltà e ripensamenti, a nuove soluzioni. Soluzioni formali favorite per entrambi i gruppi Dada, dall’utilizzo del caso come fattore principale di creazione. Mentre però a Zurigo il caso era visto come un miracolo — Arp, Tzara e compagni agivano come sacerdoti pronti ad officiare un rito — a Berlino esso veniva messo a servizio del quotidiano: Hausmann e Huelsenbeck sono piuttosto dei rivoluzionari, dei partigiani del caso. Caso che aveva sciolto i legami, le conseguenze logiche e che, dunque, bisognava utilizzare con profitto: per i manifesti, gli slogan, i giornali, le riviste, gli annunci.

Le parole  usate correntemente  e il disegno non potevano bastare più. «Bisognava escogitare qualcosa di nuovo: le foto venivano ritagliate, incollate in modo provocante, collegate tra loro con disegni, i quali venivano pure tagliati e intramezzati con pezzi di giornale o di vecchie lettere o quel che capitava, pur di cacciare nelle fauci di un mondo impazzito la sua stessa immagine».

Nasce così il fotomontaggio. Volantini, poesie, ritratti politici ufficiali corretti con un’aggressività esplosiva, venivano incollati insieme: si usava un genere di stampa innovativo, in cui le lettere non erano tutte della stessa grandezza, né andavano da sinistra verso destra, ma segni di diverse dimensioni erano stampati senza ordine sulla pagina, mentre le parole, orizzontali e verticali, erano disposte in modo tale da permettere al lettore di recepire il messaggio al primo sguardo. Il collage veniva rinnovato dall’uso della fotografia, una fotografia poi modificata a seconda delle esigenze della propaganda politica.

La scomposizione dello spazio, tradizionale venne riproposto nella grafica, la cui funzione di dare forma a parole o a serie di parole era adesso superata dalla necessità di operare una sintesi tra testo scritto e immagine. La funzione del ritmo e del colore nel quadro, fu così sostituita tipograficamente dalla parola che si inserisce nell’immagine e viceversa.

In realtà i primi fotomontaggi consistono soprattutto in prospettive diverse ravvicinate, campi visivi accostati a suggerire una vorticosità simile a quella dei quadri futuristi. Un secondo passaggio, poi, vedrà il montaggio fatto di parole, oggetti e immagini (la presenza di oggetti quotidiani, dai bottoni alle cinture, ha un significato preciso nella volontà di penetrare nel reale), fino al perfezionamento finale che si deve a Heartfleld.

In ogni caso il fotomontaggio è lo strumento privilegiato di messaggi politici perché si dimostra particolarmente adatto al lavoratore esausto, con poche energie da impiegare per la lettura. L’uso è tanto utopistico quanto didattico: il lavoratore nel momento in cui comprende immagini e testi eterogenei, può cogliere anche le contraddizioni sociali mentre i vecchi strumenti dell’arte, dalla tecnica superata, non potevano assolvere a questo compito.

«Il vero montaggio parte dalla documentazione. Attraverso di esso il dadaismo nella sua lotta accanita contro l’opera d’arte, si è fatto alleata la vita quotidiana. E stato il primo, seppure con incertezze, a rivendicare il monopolio dell’autenticità», ha scritto Walter Benjamin. La fotografia riproduce otticamente l’apparenza degli oggetti, diventa uno strumento di illusione proprio perché fornisce una parvenza di realtà. L’intervento sulla fotografia, a sua volta, consente di dare, a determinate contraddizioni sociali, un’espressione figurata.

Il fine estetico non è perseguito in sé, ma soltanto perché il piacere può essere un elemento sovversivo. Nella condanna dell’arte tout-court che caratterizzava l’attività di Dada a Zurigo, il perseguimento di un fine estetico era totalmente condannabile e, conseguentemente, il procedimento artistico è casuale: in tal modo, se dovesse esserci una riuscita estetica, questa sarebbe altrettanto accidentale. A Berlino, invece, la ricerca c’è e l’utilizzazione del caso è diretta a finalità precise, politiche L’incontro casuale di parole (in questo caso parole e immagini) non porta a un non sense nichilistico, ma all’utilizzazione di esse da parte dei lavoratori per rivendicazioni sociali.

Heartfleld, per esempio, impostò molti dei suoi fotomontaggi su fotografie tratte dall’ambiente di produzione nei momenti di scontri. E il nome stesso di fotomontaggio, come indica Hausmann, sta a indicare il rifiuto, più che per l’arte, per il ruolo di artista. «Noi ci consideravamo ingegneri, asserivamo di essere costruttori e di “montare” i nostrì lavori». Non è molto difficile sentire l’eco di queste parole nel manifesto del Bauhaus che in quegli stessi anni, e precisamente nell’aprile del 1919, nasceva a Weimar. Anche Gropius scrive, infatti, di una società che gli artisti sono chiamati a edificare come una grande cattedrale.

Non stupisce così, conoscendo le condizioni essenzialmente politiche che portarono alla nascita del fotomontaggio, sapere che la comunicazione, durante la prima metà del secolo scorso in Unione Sovietica, fu segnata proprio da questa tecnica.

Immediatamente dopo la rivoluzione d’Ottobre, infatti, i responsabili del Nuovo Stato si trovavano di fronte al grave problema di dover comunicare con un numero enorme di persone, in gran parte analfabete e soprattutto sparse per un territorio immenso. Si dovevano comunicare al più presto le novità che comportava il nuovo ordine sociale: processi come, per esempio, l’industrializzazione massiccia e la collettivizzazione delle terre.

Era quasi ovvio ricorrere all’immagine che, combinata con delle brevi frasi a mo’ di slogan o senza alcun messaggio scritto, si prestava a veicolare una nuova realtà. Ne ripercorre la storia una bella mostra, Utopia della Visione, Fotomontaggi Sovietici 1917-1950 allestita tIno al 19 settembre presso il Museo di Roma a Palazzo Braschi, a cura di Olga Sviblova, Sergej Burassovskij, Meksandr Lavrentev (il catalogo è edito da Gangemi).

Il fotomontaggio, stampato con un processo fotografico, veniva tirato in migliaia di copie e poi diffuso nei punti focali della nuova società sovietica: le fabbriche, le scuole, i kolchoz. Raccontava le magnifiche imprese dell’Armata Rossa, della Fanteria, dell’aviazione, ma anche dei minatori e degli atleti. Con il fotomontaggio si cimentarono anche artisti straordinari come Ei Lissitskij, Aleksander Rodchenko, Varvara Stepanova, che raggiunsero risultati mirabili. Particolarmente interessanti i fotomontaggi realizzati a quattro mani da questi due ultimi artisti, come l’illustrazione Spedizione polare, realizzata, nel 1937, per il volume Impresa degna dell’epoca di Stalin. Ma anche le innumerevoli copertine realizzate per giornali, riviste, copertine dì libri, come quella realizzata da EI Lissitskij per La mia Parigi di Il’ja Erenburg.

Disincantata, ma illuminante, in fine, l’osservazione dei curatori in catalogo: «Il fotomontaggio politico, può anche essere paragonato alla pubblicità della società e di un modello di comportamento e di pensiero e anche le persone raffigurate si propongono con insistenza come figure esemplari».

NOTE


[1] Estratto da: “il manifesto” del 8 agosto 2004.