LA “LOTTA DI CLASSE” DI VELTRONI: Andrea Rossi, Pierattilio Tronconi La lotta di classe non c’è più. Lo ha sancito e proclamato in un suo recente intervento di campagna elettorale Walter Veltroni in polemica con Bertinotti, poiché essa è un retaggio culturale dell’ottocento e del secolo appena trascorso. Sepolte da tempo le classi sociali, ora è la volta di celebrare, quale logica conseguenza, anche la fine del conflitto di cui le classi, date per morte, sono portatrici. Con una battuta viene così messa sotto terra la storia, anche quella del partito in cui Lui stesso ha militato forse per sbaglio fin da giovane, visto che dichiara, appena gli viene chiesto, di non essere mai stato comunista, bensì “riformista”. Nella foga di smarcarsi dal passato e di lanciare il neonato partito verso una nuova frontiera in cui il conflitto viene esorcizzato e sublimato, il Pd di Veltroni approda a riverniciate categorie del pensiero riprese dall’ammirata America e da vecchie dottrine economiche. In questa operazione, la prima a farne le spese è stata la parola “sinistra” a cui, sino a non molto tempo fa, i DS facevano riferimento, visto che essa è stata cancellata per sempre anche nel nome del nuovo partito. Non si tratta, come recentemente ha detto Bertinotti in un’intervista, di un semplice maquillage poiché si tratta di un riposizionamento vero di una linea politica e di una classe dirigente che fa proprie le ragioni del mercato e del capitale. Ci sono voluti diversi anni di manfrina ma ora Veltroni dichiara tutti i giorni che la sola società possibile è quella di «mercato» e che a governarla «democraticamente» bastano due partiti come nel modello anglosassone, uno più «compassionevole» e l'altro più feroce (Rossana Rossanda). Cambia anche il linguaggio. Nella nuova vulgata non ci sono più padroni e operai. Non perché il capitalismo si è dissolto, ma perché entrambi vengono sussunti entro la categoria di “lavoratori” i quali svolgono “ruoli diversi”. Il termine padrone è definitivamente rimosso a favore del più digeribile e molle termine “datore di lavoro”. Lavoratori sono sia i “datori di lavoro” che i loro “dipendenti” perché entrambi si “spezzano la schiena” da mattina a sera per creare ricchezza e benessere, rischiando del proprio. Tutti sono sulla stessa barca poichè se va male ai primi, va male anche ai secondi. Poiché tutti e due fanno “impresa” esiste c’è dunque un “interesse comune” che dovrebbe far convergere tutti coloro che nel processo produttivo svolgono “ruoli diversi”. E se ciò sino ad oggi non si è verificato è perché si sono frapposte forze sociali e politiche che interpretavano ed agivano entro i processi socio economici in modo sbagliato. Nel nuovo pensiero, le differenze sociali non sono determinate dalle differenti condizioni in cui nel processo economico si presenta da un lato chi possiede i mezzi della produzione e chi invece dall’altro dispone solo della propria forza lavoro, ma da una ingiusta ripartizione del reddito prodotto. Il conflitto viene deprecato perché spreca risorse e perché esso si fonda su una radicalizzazione delle parti sociali che dovrebbe essere evitata. Mercato e concorrenza sono riaffermati quali pilastri della crescita sociale ed economica e mentre il primo deve essere esteso ovunque, liberalizzando i settori o comparti ancora “protetti” dallo Stato, il secondo deve essere incentivato liberandolo dai lacci e laccioli che la politica vi ha inserito, assecondando talvolta le spinte corporative presenti nella società. Il credo della dottrina liberista “meno stato e più mercato” viene assunto a riferimento per le politiche economiche poiché il privato, “rischiando del suo”, è il solo soggetto che è spinto a far fruttare nel modo più efficiente i “fattori della produzione”. La lotta ai monopoli viene invocata in nome della concorrenza poiché è quest’ultima il solo meccanismo ritenuto capace di contenere o ridurre i prezzi delle merci. Se in nome della concorrenza che si vuole “libera”, si accetta che alcune piccole o grandi imprese chiudano i battenti, ciò non è permesso alle banche, specialmente a quelle grandi poiché il loro fallimento trascinerebbe nel baratro l’intero sistema economico. Protezionisti con i poteri forti e liberisti con i soggetti deboli. Alle disuguaglianze sociali si pone rimedio con una compassionevole politica dei redditi, sempre che ci siano risorse economiche da distribuire. Il tempo di lavoro va adattato alle esigenze del mercato delle merci per cui esso diviene l’elemento ordinatore anche della vita sociale e familiare. Ai “lavoratori dipendenti” viene chiesta flessibilità per tutta la durata della loro vita perché questa è una delle condizioni dettate dalla concorrenza, dalla nuova divisione internazionale del lavoro e dalle trasformazioni dei processi produttivi. E se la “flessibilità”, che è un bene, si accompagna spesso alla “precarietà”, che è considerata un male, quest’ultima non deve diventare motivo per mettere in discussione la prima. Nel mercato del lavoro anche il salario deve essere flessibile e derivare dalla produttività, non più quella media settoriale o nazionale, ma quella della singola azienda. Da qui la necessità di superare i contratti nazionali di categoria e incentivare, con politiche fiscali, quelli di secondo livello, territoriali e aziendali. Se poi non si fanno, poco male, perché si ha fiducia nelle generosità delle imprese i cui proprietari, se le cose vanno bene, sanno premiare i meritevoli. La detassazione di salari e stipendi deve favorire la produttività aziendale e perciò riguardare solo l’allungamento del tempo di lavoro (straordinari). Al diritto al lavoro, sancito dalla costituzione, si preferisce il meno rigido diritto all’”opportunità di lavorare”. Si dice basta “all’ambientalismo che cavalca ogni movimento di protesta e impedisce la crescita dell’Italia” poiché si preferisce “l’ambientalismo del fare”, ossia quello delle grandi opere pubbliche, dei gassificatori, degli inceneritori, delle centrali a carbone di cui si sostiene, per definizione, che non se ne può fare a meno. In tema di pianificazione dell’uso e del governo del territorio si sostiene che si debba minimizzare il consumo di suolo vergine ma si bolla come “cattiva consigliera” l’ideologia della regolamentazione. Ci fermiamo qui. Non abbiamo inteso fare una lettura caricaturale delle tesi portanti del nuovo Partito Democratico, ma ripercorrerle, sia pure in modo schematico, per mettere in luce la profonda revisione politica e culturale che ha attraversato un partito che da comunista, passando poi per la socialdemocrazia è approdato alle dottrine neo liberiste, seppellendo anche il riferimento alla cultura di “sinistra”. È grazie a questa revisione politico culturale che nel Pd si vuole, mistificando, far convivere l’operaio della Thyssen con il suo antagonista, l’ex presidente di Federmeccanica Calearo che per diversi mesi ha negato il rinnovo del contratto ai metalmeccanici e che solo grazie al conflitto sindacale, ossia alle deprecate lotte, agli scioperi, è stato costretto a firmare senza tuttavia dare quegli aumenti salariali che il sindacato rivendicava. E’ la nuova politica del “ma anche”. Ma chi “conterà” quando si tratterà di prendere decisioni di politica economica e di politica del lavoro, il giovane Colaninno, ex presidente dei giovani di Confindustria ed il falco Calearo o l’operaio della Thyssen ? Chi avrà la meglio tra la giovane precaria messa in lista ed il prof. Ichino, ossia il teorico confindustriale che si batte per la cancellazione dello statuto dei diritti dei lavoratori? Chi la spunterà tra le new entry di Legambiente e Di Pietro? Si sancisce la morte della lotta di classe mentre il mondo è attraversato da lotte che oppongono lavoratori ai capitalisti, oppressori ad oppressi per la conquista di migliori condizioni di vita, di diritti sociali e tutele per la salute e sicurezza sul posto di lavoro, per garantire alle presenti e future generazioni un ambiente in grado di sostenere la crescita della popolazione. Da un intellettuale come Veltroni ci saremmo aspettati ben altro approccio analitico. Non è culturalmente e politicamente onesto cancellare la storia introducendo una cesura tra il presente e il passato, come se le evidenti contraddizioni insite nel sistema capitalistico non esistessero più solo perché vengono rimosse dalla coscienza e dal pensiero. Ci dispiace per Veltroni e il suo Pd ma non siamo nel mondo dell’armonia e la sua invocazione non basta a giustificare una pratica politica che invece mira a conservare l’ordine presente. Ma la cosa che ci dispiace ancor di più è l’idea che l’ingannevole messaggio politico divulgato da questo nuovo partito e dal suo leader riesca a fare breccia tra le classi sociali subalterne, classi che anche dopo le elezioni si troveranno comunque a lottare per la conquista di migliori condizioni di vita ad ennesima riprova che la lotta di classe non è una invenzione, dato che scaturisce dall’esistenza delle differenze socioeconomiche che stanno alla base del sistema economico vigente. |