L’INSOSTENIBILE SVILUPPO Andrea Rossi, Pierattilio Tronconi Mentre le economie del mondo globalizzato sono scosse dai profondi processi di crisi finanziaria generati oltre Atlantico, la campagna elettorale ed i programmi dei nostri due maggiori schieramenti non sembrano esserne turbati. Cresciute per anni all’ombra dell’allegra finanza speculativa che prometteva guadagni facili grazie alla catena di Sant’Antonio su cui si regge, l’attenzione critica al modello di sviluppo dominante, che già da tempo mostrava i segni della sua incapacità di generare accumulazione su scala generale e di preservare le condizioni ambientali e climatiche perché le attuali e future generazioni potessero soddisfare i propri bisogni, era lasciata a pochi economisti ed ambientalisti considerati delle cassandre. La globalizzazione delle economie e dei mercati, celebrata come risposta adeguata a fornire, sotto la guida di politiche neoliberiste, la base del nuovo ordine mondiale a guida americana, ha mostrato con sempre maggiore evidenza i segni della sua incapacità di generare un’epoca di pace e di dare risposte ai crescenti bisogni della popolazione del pianeta ed alle problematiche connesse all’inquinamento della Terra. Alle critiche già espresse si uniscono oggi quelle di economisti certamente non di “sinistra” (A. Greenspan) anche se, per parlare della crisi, ricorrono all’uso di termini non allarmistici: la parola “recessione” viene infatti accuratamente evitata, preferendo la più rassicurante espressione di “frenata” dell’economia. Eppure le cose negli USA vanno così male che la Federal Reserve (nelle vesti di prestatore di ultima istanza) è stata costretta ad intervenire a più riprese per tentare di arginare, per via monetaria, quella che alcuni definiscono la più grave crisi dopo quella del ‘29. La crisi da sovrapproduzione di capitali, di marxiana memoria, è tornata a presentare il suo conto. E’ l’economia mondo che rischia di andare a pezzi poiché a mostrarne il limite non è solo l’economia finanziaria ma, e soprattutto, l’economia reale che la sottende, la quale essendo basata su un modello di sviluppo ad alta intensità di capitale, di energia, di materie prime e di uso del territorio, non è in grado, nonostante il crescente sfruttamento della forza lavoro, di generare accumulazione su vasta scala, preservando al contempo l’ambiente ed il clima del pianeta. Diviene così sempre più manifesta la crisi di un “modello di sviluppo” che già nei primi anni ‘80 era stato criticato, sotto l’aspetto della sostenibilità, dalla Commissione Brundtland dell’ONU. In quel rapporto si evidenziava che un sistema economico in crescita è sostenibile solo se l’ammontare delle risorse utilizzate per la creazione di ricchezza resta, in quantità e qualità, entro opportuni limiti di sfruttamento e non sovraccarica le capacità di assorbimento fornite dall’ecosfera. Limiti che questo sistema economico non riconosce poiché si fonda sulla crescita illimitata delle merci. Nonostante gli appelli ed i solenni impegni degli Stati per attivare politiche “socialmente ed ambientalmente sostenibili” in grado di coniugare la soddisfazione dei crescenti bisogni delle popolazioni con la tutela del pianeta e del clima, sono rimaste in gran parte disattese. Si è proceduto come se il sistema economico e produttivo vigente, corretto in qualche sua parte e spinto dall’economia finanziaria, potesse essere esteso ad ogni parte del Pianeta. Da allora le cose sono peggiorate ed oggi il problema del farsi carico dello “sviluppo sostenibile” non significa più, “trovare un qualche compromesso tra l’esigenza della conservazione e quella della trasformazione” poiché “non si tratta di scegliere le trasformazioni in qualche modo “compatibili” con la tutela. Si tratta, invece, di rinunciare a quelle trasformazioni che comportino una riduzione delle risorse che riteniamo necessarie, oggi e domani, al genere umano. Oppure (ed è un altro modo di dire la stessa cosa) si tratta di garantire che il bilancio di ogni trasformazione porti a un miglioramento dell’insieme delle risorse disponibili...” (E. Salzano). Si tratta di una questione cruciale che i Paesi industrializzati, maggiori responsabili del degrado ambientale, hanno affrontato con inerzia. Nel nostro Paese il problema dello sviluppo sostenibile è sì entrato nelle agende politiche di vari Governi ma poi si è fermato in gran parte lì. Esiste ancora la convinzione che il modello di sviluppo vigente, pur manifestando periodicamente segni e forme diverse di crisi, possa essere conservato e prolungato nel tempo, essendo sufficienti allo scopo l’applicazione rigorosa in economia di ricette neo liberiste e monetariste. Si tratta di un credo che oggi è proprio delle due maggiori forze politiche del nostro Paese, tant’è che in materia di programmi elettorali ambedue si accusano reciprocamente di copiatura. É il “pensiero unico” che è entrato a far parte di entrambi gli schieramenti. Sia per il Pdl che per il Pd non si pone il problema dello “sviluppo socialmente ed ambientalmente sostenibile” poiché il problema prioritario è quello di rilanciare e sostenere la crescita economica del Paese, ossia il suo PIL, facendo assegnamento sulle forze del mercato, sulle capacità concorrenziali delle imprese, sulla liberalizzazione e privatizzazione dei servizi e beni pubblici, sulla crescita della produttività del lavoro, sulla riduzione della spesa pubblica e delle tasse, sui sostegni alle imprese, sul contenimento dei salari e delle pensioni. Abbandonato il tema dello sviluppo sostenibile del programma dell’Unione, nel nuovo partito di Veltroni che non si vuole più di sinistra poiché si definisce “riformista”, anche la parola “sviluppo” ha assunto una nuova connotazione poichè viene coniugata con il termine “sviluppo di qualità” il cui significato è: “più mobilità sociale, più spazio al merito ed ai talenti…; più legalità …; più ricerca e scienza, innovazione tecnologica…; più fiducia nel futuro e in se stessi ….; più potere e decisione alla democrazia …”. Alla politica del “ma anche” si accosta quella del ”più”: basta così aggiungere un “più” all’esistente per correggere le storture e contraddizioni presenti. La “modernità” diviene sinonimo della sostenibilità da conseguire con l’ambientalismo del “fare” in cui ci sono le fonti rinnovabili ma anche il nucleare, che si vuole sicuro, le centrali a carbone ma anche i degassificatori, ecc. Insomma tutto fa brodo, purchè l’economia riprenda a girare con buona pace degli impegni assunti col protocollo di Kyoto. I ritardi già oggi accumulati nell’ambito delle politiche ambientali fanno ritenere a molti studiosi che il problema non sia più quello della “non compromissione ulteriore” delle capacità della terra, bensì quello della riduzione della “compromissione già in essere” al fine di soddisfare “i bisogni delle attuali generazioni accrescendo la capacità di quelle future di rispondere ai loro” (E. Salzano). Come affrontare dunque un problema così complesso che guarda sì al futuro ma che interroga pesantemente il presente? A nostro avviso nessuna politica è credibile se in nome dell’assunzione di una responsabilità intergenerazionale, a garanzia di condizioni di benessere sociale rivolte alle future generazioni, si ignora l’assunzione di una responsabilità rivolta alle attuali generazioni che popolano il pianeta. Com’è possibile infatti garantire alle future generazioni migliori condizioni di vita e di benessere se già oggi nel mondo, con questo modello di sviluppo, una gran parte della popolazione, compresa quella degli stessi paesi più sviluppati, ne è esclusa? La ricerca e il conseguimento della sostenibilità presuppongono dunque la consapevolezza della sua dimensione intragenerazionale; una presa di coscienza ineludibile che deve anzitutto dar corso, per via democratica, ad appropriate politiche di trasformazione del modello socio-economico dominante. Questo è a nostro giudizio il nodo critico del problema che si deve affrontare per non rinviare al futuro ciò che può e deve essere fatto oggi. Cosa? Ecco solo alcune indicazioni. Alla politica si dovrebbe chiedere di mettere al primo posto la lotta alla rendita nelle sue varie forme: finanziaria ed immobiliare ed all’evasione fiscale; la promozione e sostegno di uno sviluppo delle forze produttive basato su sistemi di produzione, distribuzione e consumo di beni a basso contenuto di energia e di materie prime; la gestione pubblica di alcuni beni comuni (acqua, suolo, foreste) quali patrimonio dell’intera umanità; un uso sociale dell’ambiente ed una sua gestione democratica e partecipata; un governo pubblico del territorio che ponga limiti al consumo di suolo ed alla sua compromissione; la non riduzione a merce della salute e dell’istruzione; la garanzia di tutele sociali pubbliche che assicurino condizioni di vita dignitose per giovani ed anziani. Purtroppo di tutto questo nella politica del “ma anche” e del “più” non vi è traccia, con buona pace dello sviluppo ambientalmente e socialmente sostenibile. |